Pare che il problema della città cui appartengo (chissà perchè poi dovrei dirla mia, se non declinando un possesso che è al massimo senso di appartenenza) siano gli immigrati. Un po' sarà il cromatismo cutaneo, un po' gli assembramenti all'aperto, un po' la tendenza ad una lieve chiassosità, un po' l'odore della base dei loro poderosi soffritti... Ed un po' la lingua.
Ovviamente l'oggettivo "Non capirsi" non è il solo problema.
Siamo su un territorio più raffinato della comprensione, anche se questa è necessaria, tuttavia non è sufficiente. La richiesta, pur non esplicita, è di una integrazione che sia omologazione. E dunque il punto non è che non parlino bene l'italiano (o quella graziosa parlata di ceppo veneto che caratterizza queste rive) ma piuttosto che, tra di loro, continuino a usare la propria lingua d'origine, che cioè la loro "appartenenza" sia dichiaratamente non omologa.
Tutte le società si fondano su fattori unitari, più o meno importanti, ma sempre “permeanti” la concezione di società. La lingua e il concetto di nazione non sono sempre stati una necessaria omologazione, tuttavia il tramonto degli stati multinazionali ci ha lasciato orfani della visione di Stefano I di Ungheria (primo re e anche Santo cattolico)
“Lascia agli stranieri la propria lingua e la propria cultura...”
Il filosofo americano Walzer distingue due forme di esercizio di tolleranza all'interno degli stati, all'apparenza mutualmente esclusive: l'assimilazione del singolo ed il riconoscimento dell'importanza dei gruppi; il nostro tempo ha dimostrato che nessuna delle due è una dorata soluzione.
Le politiche di assimilazione culturale attuate per decenni in Francia stanno naufragando davanti alla sempre più radicale richiesta di “gruppi” di un riconoscimento in quanto ente collettivo. Walzer lo scrive nel 2000, oggi, qualche anno più tardi, le “Banlieu” sono un tragico esempio dell'insufficienza di quell'impostazione, evidentemente qualcuno sapeva leggerne le difficoltà già con qualche mesetto di anticipo.
Nemmeno il semplice stabilire una divisione in gruppi, con frammentazione sociale estrema, può tuttavia essere una risposta, soprattutto dinanzi allo squilibrio sociale che vede gli immigrati appiattiti nelle classi meno agiate della società. Fintanto che la struttura del benessere economico “regge”, difatti, le tensioni sociali tra gruppi vengono calmierate da un benessere diffuso, salvo esplodere nelle fasi di depressione, anche in forma di vere e proprie “lotte tra poveri”.
Proprio in questa fase riemerge (non ditemi che non vi sovviene nessun esempio in mente) un tradizionalismo di stampo neo-nazionalista. La vittoria di S. in Italia è soprattutto la vittoria di una logica sì liberale (ma il liberalismo non ha bisogno di essere né tollerante né plurinazionale) ma con tentazioni proto-mercantiliste, con ricadute nelle grandi e piccole patrie, leghismi non più residuali che divengono ottiche politiche spesso dominanti, destrutturazione della storia dell'immediato dopoguerra come scelta programmatica, destituzione del concetto di interculturalità, fino all'aberrante denuncia di ogni relativismo.
Il tradizionalismo etico si sposa quindi al liberismo.
Il nuovo pensiero forte, identitario, massificato.

Lo straniero diviene oggetto di utilità economica e di repulsa etica, la sua omologazione è declinata “al ribasso”, la collocazione culturalmente asimmetrica è palese, l'accoglienza diviene “sopportazione”. Un vortice con quale finale?
“...nam unius linguae, uniusque moris regnum imbecille et fragile”
(...difatti è debole e caduco il regno che abbia una sola lingua ed univoci costumi)
Quasi quasi mi tocca sperare che avesse ragione un Santo.