venerdì 30 maggio 2008

Chi si Rivista


Ci sono alcune persone che ci abituiamo a vedere per anni, sempre identiche, quasi immutabili.
Succedeva nella prima repubblica (e bisogna premiare la costanza Andreottiana nel non essersi mai mutato più di tanto, nonostante i rovesci del fato) e succede nella seconda.

Il presidente della camera con la 'erre' un po' snob è diventato, tragicamente, un ex.
Allora mi sono chiesto, lasciata la camera ed il parlamento, lasciata la dirigenza del partito (circa lasciata), tornare a fare il semplice nonno potrebbe essere complicato.

Così ho scoperto che F.B. è anche direttore di una rivista bimestrale.



ed ho scoperto che proprio adesso, nel periodo congressuale di ciò che rimane dei suoi vecchi seguaci, ha deciso di aprire la fase due dell'azione della rivista. Cioè più convegni, più giornate di studio, ospiti illustri e aggregazioni culturali.
E guarda caso proprio sul tema del futuro della sinistra.
Lo stesso dibattuto nel congresso dei suddetti.

Mi sono chiesto se fosse già capitato che qualcuno dicesse che lasciava l'agone per poi dedicarsi a tempo pieno ad una rivista che, guarda caso, si occupa proprio di politica politicata.
Qualche esempio, ovviamente, mi è venuto.

E' proprio vero che non si inventa niente.



giovedì 29 maggio 2008

Con lo Zolfo e col Fuoco

"Siccome il grido che sale da Sodoma e Gomorra è grande e siccome il loro peccato è molto grave, Io scenderò e vedrò se hanno veramente agito secondo il grido che è giunto fino a me; e, se così non è, lo saprò"

Gomorra è un film gelido.

Pulito come raramente sanno essere i film italici.

Non c'è solo il libro, dentro, ed è una fortuna, le pedisseque derivazioni infatti spesso producono accidia.

Si intrecciano narrazioni, in un processo lento, senza gli estetismi d'azione dei modelli americani, e senza nemmeno le introspezioni annose care a un certo manierismo europeo.

Parlare bene di un film che ha vinto il premio della giuria è facile ed al contempo noioso.

Eppure il compito difficile di Gomorra era duplice: ritrarre in un film la deviante violenza del crimine organizzato, sfiorando l'essenza della struttura del sistema e nel contempo non produrre cicli “antieroici”.


Andare a vedere Gomorra è come subire una lacerante visione documentaristica, attraverso una Scampia tremendamente reale, popolata di una folla quasi neorealista, che è un epicentro narrativo oltre che scenografico.


Nel film, come nel quartiere, non troviamo salvezza o speranza, ed ogni traccia di umanità è solo riflesso di fragilità interiori irrisolte, mai fonte di redenzione, nemmeno personale.

Non ci sono Dei, a Gomorra.


Un mondo separato da quello della (nostra) quotidianità, nel quale i ritmi, i legami, i luoghi, sono dominati da uno degli ingredienti della tragedia Aristotelica. La Paura.

Paura declinata nell'addestramento dei “soldati” di Gomorra, che già bambini si sottopongono al giudizio delle armi, che vivono sospesi, che alla paura reagiscono contabilizzando i futuri cadaveri da accumulare nelle file avverse.

C'è la sfacciata tracotanza degli emuli di Tony Montana, predestinati sin dall'inizio a quella che uno dei due dichiara sarà una morte precoce.

Nella guerra di Gomorra c'è anche la paura dei i “civili”, i non armati, quelli inadatti a respirare davanti alla canna di una pistola. Delle donne che vivono nell'ombra del sistema, dei piccoli ragionieri, dei bambini cresciuti troppo in fretta.


L'altro presidio alchemico della poetica Aristotelica, la Compassione, invece non trova spazio nella città condannata. Né tra i protagonisti né per essi.


Ci rendiamo conto infine di non assistere ad una tragedia messa in scena, ma all'ordinarietà di quel sistema, quel luogo alieno eppure consciamente reale, che vogliamo chiamare Gomorra.


martedì 27 maggio 2008

Un'idea brillante


Il signor I.L.R. ha deciso, pochi giorni fa, che una brillante idea sarebbe stata quella di far presidiare i quartieri dalle forze armate durante la notte.

Per tenere la gente nelle case serena e tranquilla.

L'esercito veglia su di loro, su di noi...


Forse ad alcuni di voi l'idea dei posti di blocco dei ragazzi in mimetica per le strade di notte evocherà spiacevoli ricordi da giunte militari. Ma questo è solo perchè non volete tenere il passo con la modernità e con il bisogno di sicurezza.

Non sorprendetevi


In tutte le società democratiche l'esercito pattuglia le strade dopo le sei del pomeriggio.



Tuttavia oggi pare che la cosa salti.
Niente checkpoint nelle piazze e nei centri storici.
Peccato, già immaginavo i giapponesi lì a fotografare il nostro particolare "cambio della guardia".

domenica 25 maggio 2008

Un Santo

Pare che il problema della città cui appartengo (chissà perchè poi dovrei dirla mia, se non declinando un possesso che è al massimo senso di appartenenza) siano gli immigrati. Un po' sarà il cromatismo cutaneo, un po' gli assembramenti all'aperto, un po' la tendenza ad una lieve chiassosità, un po' l'odore della base dei loro poderosi soffritti... Ed un po' la lingua.

Ovviamente l'oggettivo "Non capirsi" non è il solo problema.

Siamo su un territorio più raffinato della comprensione, anche se questa è necessaria, tuttavia non è sufficiente. La richiesta, pur non esplicita, è di una integrazione che sia omologazione. E dunque il punto non è che non parlino bene l'italiano (o quella graziosa parlata di ceppo veneto che caratterizza queste rive) ma piuttosto che, tra di loro, continuino a usare la propria lingua d'origine, che cioè la loro "appartenenza" sia dichiaratamente non omologa.

Tutte le società si fondano su fattori unitari, più o meno importanti, ma sempre “permeanti” la concezione di società. La lingua e il concetto di nazione non sono sempre stati una necessaria omologazione, tuttavia il tramonto degli stati multinazionali ci ha lasciato orfani della visione di Stefano I di Ungheria (primo re e anche Santo cattolico)

“Lascia agli stranieri la propria lingua e la propria cultura...”

Il filosofo americano Walzer distingue due forme di esercizio di tolleranza all'interno degli stati, all'apparenza mutualmente esclusive: l'assimilazione del singolo ed il riconoscimento dell'importanza dei gruppi; il nostro tempo ha dimostrato che nessuna delle due è una dorata soluzione.

Le politiche di assimilazione culturale attuate per decenni in Francia stanno naufragando davanti alla sempre più radicale richiesta di “gruppi” di un riconoscimento in quanto ente collettivo. Walzer lo scrive nel 2000, oggi, qualche anno più tardi, le “Banlieu” sono un tragico esempio dell'insufficienza di quell'impostazione, evidentemente qualcuno sapeva leggerne le difficoltà già con qualche mesetto di anticipo.

Nemmeno il semplice stabilire una divisione in gruppi, con frammentazione sociale estrema, può tuttavia essere una risposta, soprattutto dinanzi allo squilibrio sociale che vede gli immigrati appiattiti nelle classi meno agiate della società. Fintanto che la struttura del benessere economico “regge”, difatti, le tensioni sociali tra gruppi vengono calmierate da un benessere diffuso, salvo esplodere nelle fasi di depressione, anche in forma di vere e proprie “lotte tra poveri”.

Proprio in questa fase riemerge (non ditemi che non vi sovviene nessun esempio in mente) un tradizionalismo di stampo neo-nazionalista. La vittoria di S. in Italia è soprattutto la vittoria di una logica sì liberale (ma il liberalismo non ha bisogno di essere né tollerante né plurinazionale) ma con tentazioni proto-mercantiliste, con ricadute nelle grandi e piccole patrie, leghismi non più residuali che divengono ottiche politiche spesso dominanti, destrutturazione della storia dell'immediato dopoguerra come scelta programmatica, destituzione del concetto di interculturalità, fino all'aberrante denuncia di ogni relativismo.

Il tradizionalismo etico si sposa quindi al liberismo.

Il nuovo pensiero forte, identitario, massificato.

Lo straniero diviene oggetto di utilità economica e di repulsa etica, la sua omologazione è declinata “al ribasso”, la collocazione culturalmente asimmetrica è palese, l'accoglienza diviene “sopportazione”. Un vortice con quale finale?


“...nam unius linguae, uniusque moris regnum imbecille et fragile”


(...difatti è debole e caduco il regno che abbia una sola lingua ed univoci costumi)

Quasi quasi mi tocca sperare che avesse ragione un Santo.